Cinque e mezzo

(ovvero i miei primi anni)

 

È raro trovare racconti di episodi accaduti nei primissimi anni di vita, poiché normalmente non sono tanti i ricordi che sopravvivono a quell’età.

Ho tentato di radunare quelli che ritengo più completi e più significativi, raccontandoli in prima persona, per illustrare come un bambino inizia a vedere il mondo. Gli episodi sono neces­sariamente scollegati, senza un filo conduttore: la si direbbe una rapsodia di ricordi.

Qua e là ho inserito dei commenti, provenienti dall’età adulta, per meglio illustrare sentimenti e situazioni, e ho condito il tutto con una sottile ironia per evi­denziare quanto il mondo fosse diverso sessant’anni fa.

Confesso peraltro che scrivendo mi sono tolto qualche sassolino dalla scarpa!

Dai racconti emerge la smentita dell’opinione che i bambini piccoli abbiano limiti di comprensione: capiscono tutto, ma a modo loro. E tutto quello che capiscono ha un’influenza sul loro futuro.

Questo bambino sembra ricordare soprattutto episodi negativi. È normale: un bambino piccolo dà per scontato che tutto proceda a suo favore e non sopporta le frustrazioni. Pertanto rileva e ricorda principalmente gli eventi che lo hanno contrariato, che considera eccezioni da rettificare, e dimentica i fatti positivi, che secondo lui dovrebbero essere la regola.

Sarà la maturazione a fargli capire che buono e cattivo non sono mai nettamente distinti, ma formano un nodo inestricabile.

L’autore all’età dei racconti:
a casa sulla sedia pieghevole Reguitti e in montagna

 

La nascita

 

Sono nato nel ghiaccio.

È metà dicembre e fuori nevica, come succedeva sempre, una volta, in dicembre.

Sono nato in casa, come si usava allora, poiché nascere in un ospedale era considerato più rischioso. A riprova di ciò, non più di sei mesi prima una delle mie zie aveva perso la bambina per un’infezione contratta all’ospedale.

Succedeva spesso, e lo consideravano normale. Succede anche oggi, e la chiamano malasanità, ma la percezione del rischio è cambiata, o forse è diminuito il rischio.

La mamma aspetta il suo momento sul tavolo di cucina, quello freddo con la lastra di marmo, che è l’attrezzatura migliore di cui si dispone. Racconterà in seguito che sentiva male più per i crampi alle gambe dovuti al freddo che per le doglie.

Le cose vanno per le lunghe e non si mettono bene. La levatrice diventa nervosa. Si prende la decisione di chiamare un medico.

Le mie zie si dividono in tre gruppi: quella curiosa, che se ne sta vicino al tavolo e non vuole perdere neppure un attimo della scena; quella della bambina morta, che sta gufando a casa sua, con l’aria di chi sa già come finiscono queste cose, e quella che si aggira ansiosa in cortile senza il coraggio di guardare né di chiedere, e scoppia a piangere all’ar­rivo dell’ambulanza.

Finalmente arriva il medico che decide di usare il forcipe: in pratica mi afferrano la testa con un pinzone, all’altezza delle orecchie, e mi estrag­gono senza tanti complimenti.

E se il bambino ne patisce o subisce un danno, chissenefrega, ne faranno un altro!

Ora – dico io – per estrarmi con le pinze c’era bisogno di aspettare 30 ore? Tuttora rimane per me un mistero.

Una volta estratto, immagino che avranno usato quei pentoloni con “tanta acqua calda” che ci sono sempre nei film quando deve nascere un bambino d’urgenza e che forse il medico avrà bevuto quel “caffè nero” che bolle sempre sulla stufa a favore del dottore, se questi dovesse presentarsi ubriaco.

Ma qui sembra di essere nel film Ombre rosse. Riconosco che non sarebbe corretto considerare questo film alla stregua di un documentario sulle migliori procedure ostetri­che.

Di solito si prende a ceffoni il bambino appena nato per farlo piangere e favorire la respirazione. Niente di più inutile: piango già per conto mio e con un volume che non promette notti tranquille per nessuno.

Leopardi teorizzava che i bambini piangano per lo sgomento e che tutti attorno si affannino a consolarli “dell’essere nati”.

Io peso circa quattro chili, ma piango forte. Sarebbe stata la mia caratteristica per almeno due anni.

E per due anni i miei genitori avrebbero fatto i turni per tentare di calmarmi. Turni anche di notte, visto che i vicini, dopo qualche mese di sopportazione, si erano fatti minacciosi.

E la mamma va in strada col fagotto urlante, e incontra il nonno che rientra alle sei dal turno di notte alla Pirelli.

E va da don Agostino, in chiesa, a scongiurarlo che faccia un esorcismo o qualche diavoleria che senz’altro lui conosce, per far morire almeno uno dei due, o me o la mamma, tanto la faccenda è diventata insopportabile.

E don Agostino in confessione avrebbe avuto il coraggio di rifiutare l’assolu­zio­ne alla mamma che, a domanda, dichiara di non desiderare altri figli. Lei avrebbe successivamente ottenuto l’assoluzione dai frati, che sembrano compren­dere meglio i fatti della vita.

Si racconta che il solo modo di calmarmi fosse prendermi in braccio e scuotermi la testa con un certo vigore. Altro che “sindrome del bambino scosso”!

Sarei potuto morire, se solo avessi saputo che esisteva una sindrome simile.

Fin verso i due anni anche il famigerato “ciuccio” è un buon rimedio. Ma bisogna essere svelti e usarlo con maestria.

La bocca per restare silenziosa deve essere costantemente occupata: pertanto dal momento in cui esce il cucchiaio della pappa a quando subentra il ciuccio non può passare più di una frazione di secondo. E spesso la sequenza dei fatti segue questo schema: cucchiaio – uaaahhh – ciuccio – uaaahhh – cucchiaio – uaaahhh – ciuccio e così via.

Piango anche quando lo zio barbiere mi taglia i capelli. Però qui ho ragione io: lui usa le forbici con i denti per sfoltire e la macchinetta per fare la sfumatura dietro il collo. Questi attrezzi infernali per tagliare un capello ne strappano due!

Ricordo che all’età di due anni il ciuccio, imprudentemente non legato, scivola nel WC. Grande tragedia, sembrerebbe, ma invece niente. Non faccio una piega. Me ne comprano uno nuovo in farmacia, ma non mi piace. Non sa di gomma usata come quello vecchio e rinuncio per sempre. Evidentemente i tempi sono maturi.

Piangevo spesso

 

Il freddo

 

esso il male di vivere ho incontrato

era il rivo strozzato che gorgoglia

era l'incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

Eugenio Montale, Spesso il male di vivere (Ossi di seppia)

 

Ricordo, nonostante la tenerissima età, che il freddo – di cui peraltro non soffrivo – era l’elemento dominante.

Forse il clima era davvero differente. C’era neve dappertutto per molte settimane all’anno e il ghiaccio la faceva da padrone, anche in casa.

Io non l’ho mai visto, ma si racconta che mio nonno si svegliasse al mattino con i baffi brinati e dovesse rompere il ghiaccio nel catino per lavarsi. E questo in casa! Avrei rivisto la scena anni dopo in un film con Renato Pozzetto: ma era una gag, non un fatto di cronaca.

Più grande mi sarei trovato a ragionare: quale motivo c’era di pagare un affitto, se in casa faceva freddo come fuori?

Le finestre non avevano i vetri spessi che si usano oggi e il telaio era approssimativo. Ma ci pensava il ghiaccio a renderlo ermetico. Da ottobre a maggio non si poteva aprire.

Ricordo un medico, intervenuto per una delle tante malattie da freddo, che tuona: “Perdio! Aprite questa finestra! Non si respira. Come si può guarire in questa stalla?”.

E tutti a strattonare la finestra, che non cede, neppure dopo un trattamento al telaio a base di giornali accesi per sciogliere il ghiaccio tutt’in­torno. È aprile!

Come dicevo sopra, non ricordo di avere sofferto per il freddo. Forse ero ben termoregolato, come lo sono per natura i bambini piccoli. Il mio primo ricordo del freddo sarebbe arrivato solo alcuni anni dopo, in vacanza, quando il mare di Liguria, anche in luglio, era gelato come l’acqua di un torrente di montagna.

Ancora oggi è difficile che senta freddo e non ricordo l’ultimo raffreddore. Forse il fatto di nascere nel ghiaccio mi ha reso immune?

Non sento il freddo, comunque qualcosa deve essere andato storto, perché alla fine del primo anno mi viene diagnosticata una polmonite.

Potevo morire, ma non è il mio momento e mi curano con i sulfamidici, visto che gli antibiotici non sono ancora di (ab)uso comune. Passa la polmonite, ma i sulfamidici mi provocano una nefrite.

Potevo morire, ma non è il mio momento. Il medico alla fine mi trova sanissimo e io, per dimostrarlo, lo gratifico di uno spruzzo poten­tissimo di pipì che gli inzuppa generosamente il camice, ed è la prova gioiosa che i miei reni funzionano bene.

Più grande avrei chiesto alla mamma qual era la logica di far nascere i bambini d’inverno, visto che gli animali lo fanno in primavera, potendo contare su un clima favorevole e cibo più abbondante, appena per pochi mesi, ma sufficienti a togliere dal pericolo i cuccioli appena nati.

La mamma risponde: “Gli animali lo fanno perché sono guidati solo dall’istinto. Gli uomini possono far nascere i bambini in qualunque stagione perché sono intelligenti”.

Ah, ecco: è per l’intelligenza!

E aggiunge: “E poi pensa a Gesù bambino. Lo dice anche la canzone: Tu scendi dalle stelle… e vieni in una grotta al freddo e al gelo”.

Molti anni dopo, armato di cognizioni elementari di fisica, avrei fatto questa riflessione: nella grotta, tra buoi, asinelli, madonne e santi c’erano almeno 1500 chili di materiale biologico radiante che avrebbero emesso non meno di 1500 watt di calore. Una bella stufetta, in quella grotta; senza considerare che le pareti di roccia sono isolanti molto migliori delle pareti in muratura.

Molti e molti anni dopo, tra il serio e il faceto, avrei anche osato chiederle per quale motivo mi abbia messo al mondo. Domando: “Per egoismo o per lussuria?”, tendendole una trappola, visto che non avrebbe potuto rispondere né per l’uno né per l’altra, ma si rende conto che non possono esserci altre ragioni possibili. Avrà pure avuto uno scopo. Di solito, i genitori mettono al mondo i figli sperando di ricavarne delle soddisfazioni. E questo è egoismo.

Tanti preti inveiscono contro i genitori egoisti che non fanno figli e penso: chi mette al mondo un figlio è altruista nei confronti di chi?

Mi si eccepisce: ma la vita è un dono! E allora? È tutto da dimostrare che solo per questo sia una cosa positiva. Se vi donassi un coccodrillo sareste contenti?

E che dire di quelle vite spese dentro e fuori di galera, dentro e fuori degli ospedali? E la fame, e le guerre? Ancora oggi, e siamo nel migliore dei mondi dall’inizio dell’umanità, più del 90% delle persone non vive felicemente.

Chi “dona” la vita sfida il destino sulla pelle di chi ancora non c’è e non si sa se vorrebbe. Chi “ama la vita” ami pure la sua, ma non coinvolga altri che potrebbero non essere d’accordo.

Non v’è chi non veda come le piaghe che afflig­gono l’umanità siano in ultima istanza ricondu­cibili alla sovrappopolazione. Purtroppo, fatti bene i conti, non è vero che dividendo equa­mente le risorse ce ne sarebbe per tutti: saremmo tutti equamente miserabili.

Se ripartissimo equamente il PIL mondiale, a ciascuno spetterebbe il bel reddito di 500 Euro al mese! E non c’è tecnologia o Provvidenza che tenga per cambiare questo numero. Ha ragione il Vangelo: “I poveri saranno sempre tra voi”. A poco serve vendere il superfluo e donarlo ai poveri, come suggerisce Giuda.

Torna in mente ancora una volta De André che fa dire a Tito, il ladrone buono, impegnato sulla croce in una personalissima esegesi dei comandamenti:

Non commettere atti che non siano puri

cioè non disperdere il seme.

Feconda una donna ogni volta che l'ami

così sarai uomo di fede.

Poi la voglia svanisce e il figlio rimane

e tanti ne uccide la fame.

Io forse ho confuso il piacere e l'amore

ma non ho creato dolore.

Ma i tempi cambiano e perfino papa Francesco oggi consiglia di smettere di comportarsi come conigli. E non si riferisce alla vigliaccheria.

In definitiva, penso che sia una spaventosa responsabilità fare il “dono della vita” a chi non c’è, senza possibilità di chiedergli, dopo avergli illustrato in modo obiettivo e nei dettagli tutto ciò che dovrà affrontare, se è d’accordo di sopportare quello che Eugenio Montale chiama il male di vivere e attraversare la valle di lacrime a bordo dell’atomo opaco del male escogitato da Giovanni Pascoli.

Non si chiede neppure ai fratelli che già ci sono se sia il caso di prendere a bordo un altro marinaio con cui dividere risorse e affetti.

 

La stufa

 

Accudire alla stufa costituisce la massima occu­pa­­zione per tutti.

Non che venisse arroventata e ci fosse pericolo di esplosione: tutt’altro. Ma bisogna pur tenerla accesa, come proforma o per forza, almeno per cucinare.

Inoltre c’è il problema di far asciugare i 21 pannolini, tutti di tela e lavati a mano, che io consumo ogni giorno.

Il rapporto dei miei genitori con la stufa non è mai stato buono. Accenderla è sempre un pro­ble­ma e “farle passare la notte” lo è ancora di più.

I tubi devono essere puliti frequentemente dalla fuliggine. E la fuliggine è indice di cattiva combustione e, in definitiva, di bassa tempera­tura. Alla pulizia dei tubi sembra logico dedicare la domenica mattina; a partire dalle sei, tutti in cortile a percuotere i tubi, con gran fracasso. Ed è l’unico momento in cui si potrebbe dormire un po’ di più.

Per “farle passare la notte” ci vuole il carbone. E qui sorgono altri problemi. Ricordo la mamma che, studiando il momento migliore, ma comunque con una certa apprensione, diceva: “Ernesto, ghe sarìa una robba…” (ci sarebbe una cosa…). E lui: “Me pareva de savell! Gh’è de andà ancamò a tœ el carbun in sül surè!” (mi sembrava di saperlo. Bisogna andare di nuovo a prendere il carbone in solaio).

Si accinge di malavoglia all’odiata incombenza. E alfine rientra con una cesta di carbone che gli mortifica il corpo e gli peggiora il carattere.

Non ho mai capito il motivo per cui, visto che il trasporto lo affatica tanto, si ostini a fare un carico di 40 chili, quando avrebbe potuto fare due viaggi da 20 o anche tre da 15, molto più agevoli. Fatto sta che dopo l’ “operazione carbo­ne” è meglio essere molto prudenti con lui.

Anch’io traffico col carbone. Ne prendo alcuni pezzetti e li infilo nel cassettino del mio sgabello a imitazione dell’introduzione nella stufa o, forse, per stimolare i miei a compiere la suddetta opera­zione con una più giusta frequenza.

Ricordo che talvolta ne mangiavo un pezzetto. Si dice che quando i bambini mangiano cose come la terra o l’intonaco dei muri lo fanno per procurarsi i minerali necessari o per carenze alimentari.

Non è il mio caso. Mi avvicino allo scadere del primo anno vantando un peso di 13 chili. E a due anni già pago il biglietto del tram, poiché supero la tacca rossa del misuravaligie posta a un metro di altezza.

 

Ricordo che la stufa dei nonni era differente. Ruggisce sempre e ci buttano sopra le bucce dei mandarini per profumare la casa a buon mercato.

Il nonno passa i mesi estivi pressando la carta dei giornali vecchi, accuratamente bagnata nel mastello del bucato, e con ostentata soddisfa­zione scaglia le palle umide che ne ricava in una nicchia sopra l’uscio, dove sarebbero seccate con calma e sarebbero diventate un buon surrogato del carbone per tutto l’inverno.

Un altro gioco che si fa col fuoco sono le “anime”. La nonna mette sul piano della stufa uno dei foglietti che avvolgono le arance, accartocciato in forma di cono. Dopo un po’ si accende da solo e l’aria calda che si forma all’interno spinge il cartoccio acceso fino al soffitto. “Come un’anima in Paradiso”, dice. Forse l’idea della mongolfiera è nata così.

Ricordo anche i bisnonni, i loro volti e le loro voci. Li vedevo raramente, perché durante la guerra erano sfollati in una frazione di Erba, in Brianza, in una vera casa di campagna, che probabilmente era la portineria di una villa. E lì erano rimasti.

È simpatico il bisnonno Riccardo e sempre allegro. In campagna coltiva il granoturco e mi dà le pannocchie da sgranare. Alleva anche polli e conigli, dei quali conserva le pelli che in seguito sarebbero state conciate e usate per confezionare un cappottino per me.

Ci avrebbe lasciati, nel giro di tre giorni, alla bella età di 86 anni. Era nato nel 1869, prima della presa di Roma.

Ricordo la bisnonna Adele, piccola piccola e secca, avvolta nello scialle di lana. Ho cinque anni quando la notte in cui attraverso il telefono dei vicini del piano di sopra – l’unico in tutto il palazzo – ci avvertono della sua morte.

È la notte dell’Epifania. Le cattive notizie arrivano di notte.

Al funerale la bara è enorme; usano fabbricarle di una sola misura e si dice che fosse imbottita di tappeti e coperte per accogliere più decorosa­mente la piccola salma.

I bisnonni Riccardo e Adele

 

Del bisnonno Abele non so molto e neppure in famiglia se ne parla. Si favoleggiava che fosse andato a Messina, a portare soccorsi, per il terremoto del 1908 e che in quella occasione vi fosse morto.

Ma la lapide al cimitero monumentale della Società di Mutuo Soccorso l’Esercito, alla quale era iscritto, indica il 1915 come data della sua morte.

È forse scappato di casa? Per questo nessuno ne parla? E nessuno ha mai fatto nulla per cercarlo? Segreto di famiglia.

Lapide nel cimitero monumentale di Milano, anno 1915

 

La casa vecchia

 

Nonostante avessi due anni, ricordo benissimo la casa in cui sono nato.

Del freddo, della stufa e del carbone ho già detto.

Ricordo il cortile quadrato, con una pianta in mezzo, e la ringhiera che corre tutt’attorno. Ricordo la camera da letto, con i mobili scuri, e la cucina, enorme, con un lampadario a tre luci di vetro molato, e un tavolo così grande che non sarebbe stato possibile installarlo nella casa nuova.

Eppure col triciclo gli giro intorno senza difficoltà. Pedalo anche sulla ringhiera, anche quella della casa dei nonni, che abitano di fronte.

Non ho mai smesso di muovermi. Anche oggi mi piace pedalare e camminare a lungo.

Ricordo di quando, a due anni, mettevo sul pavimento un foglio del giornale e, posizionan­domi sopra a quattro zampe, leggo i titoli scritti con i caratteri più grossi. Ricordo la scritta “Americani” e che nell’articolo si parla di razzi sui quali c’è la scritta “U.S.Army”.

So leggere i caratteri a stampa perché quando sono in strada guardo le insegne dei negozi e chiedo cosa vogliano dire. E tra un salumiere oggi e un fornaio domani, mi insegnano, e io imparo, il segreto dell’alfabeto.

Intento a leggere il giornale:
la sfumatura è opera dello zio barbiere

(Non sto giocando col giornale:
lo sto proprio leggendo)

Sul triciclo, a casa dei nonni

La vecchia casa aveva resistito agli insulti della guerra.

All’età di poco più di due anni, dal passeggino, in posizione supina e privilegiata, vedo le facciate delle case ancora rovinate dai buchi delle bombe e ne chiedo il motivo. “È stata la guerra. La guerra è una brutta bestia!”, mi informa la mamma. Ma i bambini piccoli non capiscono le metafore, e io mi faccio l’idea che la guerra sia una specie di mostro che ha l’hobby di attaccare le città e distruggerle, un po’ come Godzilla. Solo qualche anno dopo, a scuola, alle prese con Annibale e Scipione l’Africano, capisco che lo stesso hobby, se praticato dagli uomini, si chiama guerra.

La vecchia casa aveva resistito anche a un terremoto.

Il 15 maggio del 1951 si registra in Valpadana un terremoto con epicentro nel lodigiano. Dicono le cronache dei giornali che:

a Milano la scossa fu valutata di una intensità del VI grado della scala Mercalli. Oltre a molto panico, specie nei cinematografi, la scossa determinò la caduta di cornicioni e di comignoli, nonché crepe nel selciato e lesioni piuttosto gravi in alcuni fabbricati già danneggiati dai precedenti bombardamenti. A Milano e a Venezia, la scossa sarebbe stata preceduta dal volo di piccioni”.

Ho solo 18 mesi e lo ricordo benissimo. Siamo già a letto ma io non dormo e, contrariamente alle mie abitudini, non piango. Ricordo lo scricchiolio pauroso dei mobili e una oscillazione da far girare la testa. La mamma accende la luce e grida: “Ernesto, Ernesto! Il terremoto! Ma lui, provato dal carbone e dal mio pianto durato tutta la serata, ribatte fatalista: “Zitta, zitta! che si è appena addormentato”.

Mi ero addormentato di un sonno così profondo che ricordo ancora oggi il dialogo. Nonché il bizzarro e affascinante oscillare del lampadario.

Dove non ha potuto né la guerra né il terremoto ha potuto la modernità, o forse la speculazione edilizia, che avrebbe alzato la testa pochi anni dopo. Oggi quella casa non c’è più, sostituita da un condominio moderno, come gli altri della via.

Celentano si sarebbe indignato e avrebbe scritto la sua celebre canzone qualche anno prima, ma forse è stato meglio così. Non è che oggi ci sia il cemento al posto dell’erba: in una via risanata c’è un palazzo decoroso al posto di una topaia di fine ottocento.

L’unico rimpianto è che, qualora dovessero cercare il muro giusto per mettere la lapide col mio nome, non lo troverebbero!

Sindaco e banda sarebbero costretti a tornare a casa con le pive nel sacco. Se ne faranno una ragione.

 

Le paure

 

Sono tempi in cui l’idea di rispetto per i bambini non esiste. Arriverei a dire, senza tema di esagerare, che qualora si presenti l’occasione di fare una carognata a un bambino, allora sorge non solo la facoltà ma addirittura l’obbligo di fargliela!

Le molestie più utilizzate sono talmente diffuse e così ben codificate da avere un nome:

   la mezunsetta o ganascino: consiste nell’af­ferrare il bordo inferiore della guancia del bambino tra l’indice e il medio e strizzare a piacere, sia per intensità sia per durata;

   la barbalœgia: per praticarla bisogna avere una barba di tre giorni, cosa tutt’altro che rara ai tempi. Più corta o più lunga sarebbe stata troppo morbida e quindi inefficace. Il gioco consiste nello strofinare la faccia barbuta sulle guance del bambino fino all’intensità di rossore considerata più appropriata;

   la carotula: consiste nel passare le nocche sulla testa del bambino con movimento a mezzaluna e con la pressione giudicata necessaria a farlo piangere.

E così via. Qualsiasi adulto si sente autorizzato, anche l’estraneo. Pensate come deve sentirsi un povero bambino alla fine della giornata, dopo una decina di trattamenti.

Sono tempi in cui ai bambini si tolgono denti e tonsille senza anestesia. Al massimo una spruzzata di “etere”. “Tanto, sono bambini: non sentono e non capiscono, dicono gli adulti.

Togliendo le tonsille si matura il diritto a una tazza di ghiaccio tritato con lo zucchero.

Mio padre, essendo del mestiere, dice che non è consiglia­bile mangiarlo, poiché sa che gli operai addetti alla produ­zione del ghiaccio usano inquinarlo a modo loro. L’alternativa è il gelato, ma poco, poiché gli adulti hanno messo in giro la voce che il gelato faccia molto male.

Ai bambini si prescrivono molte iniezioni. Le cure si misurano a scatole di fiale, senza risparmio. Io non le sopporto e ormai non riescono più a tenermi abbastanza fermo per farmele.

La mamma minaccia: “Domattina arriva una infermiera grande come una casa. Vedremo come te la caverai”. “Vedremo. – rispondo – Se tenterà di farmi male, la ucciderò!”.

Il mattino, l’infermiera arriva davvero. È davvero grande come una casa, ma solo nel senso della larghezza perché come altezza lascia molto a desiderare. Traballa su due piedini sproporzio­natamente piccoli, avvolti in ridicole scarpe da tennis. Fingo di dormire e lei si avvicina col proposito di sedersi sulle mie gambe. Scatto come una molla e la colpisco duramente sul grugno col calcagno. Lei barcolla, impreca, infila la porta e fugge. Accorre la mamma con espres­sione attonita. La guardo torvo e silenzioso, e lei capisce: “Che rischio! Poteva ucciderla davvero”. In seguito il medico mi condona le punture. “Tanto, non servono a niente”, dice.

Ma le paure vere nascono, imprevedibili e subdole, da fatti apparen­temente più banali.

Mio padre talvolta, ma soprattutto dopo l’“operazione carbone”, si mostra insofferente nei confronti delle mie piccole marachelle infantili e minaccia: “Basta! Bisogna ciappà di pruvvediment. Te andaret a finì in di Barabbitt. Te indrissarann luur!” (bisogna prendere dei provve­dimenti. Finirai dai Barabbitt. Ti raddrizzeranno loro).

Cosa siano i Barabbitt non lo so di preciso. Forse è il riformatorio, ma non mi sembra che le mie azioni avessero un risvolto penale. D’altra parte il nome evoca Barabba, il ladrone cattivo, che però la folla voleva libero al posto di Gesù (già mi chiedevo allora se è mai possibile che esistano ladroni cattivi e ladroni buoni).

Forse si tratta di un collegio a regime militare, come l’istituto Pierpaolo Pierpaoli del Giornalino di Gianburrasca, o forse del famoso Collegio Convitto Celana nella bergamasca. Si diceva che fosse organizzato come un carcere di massima sicurezza nello stile dei film americani, e si narrava che uno zio ivi recluso fosse fuggito saltando da un muro di cinta alto sette metri, salvo essere riacciuffato dopo pochi chilometri.

La mamma nel frattempo sostiene di non digerire più niente e rafforza la sua affermazione con un’espressione nauseata molto credibile.

Allora, come un bravo bambino di quattro anni, cosa posso dedurre? Quanto tempo può resistere un organismo che non riesce, e non riuscirà più, ad assimilare niente di ciò che mangia? Un mese, due al massimo, ma poi kaputt!

E a quel punto come avrebbe fatto mio padre, da solo, a occuparsi di me, con gli impegni che aveva col lavoro e col carbone? È chiaro che sarei finito tra i Barabbitt. Non ci può essere altra soluzione. Non mi sembra neppure moralmente sbagliata. E quindi è verosimile.

Oggi racconto questa storia ridendo, perché oramai sono troppo grande per finire tra i Barabbitt, e la mamma dice che ero proprio stupido.

Ma i bambini non capiscono il linguaggio figurato. Prendono tutto alla lettera e, se proprio si vuole definirli stupidi, la loro stupidità consiste nel credere a ciò che dicono gli adulti.

A difesa dei bambini che si sentono ripetere come le mamme siano in ogni caso più intelligenti di loro, riporto questo breve dialogo:

   Mamma, è vero che le mamme sono sempre più intelligenti dei loro figli?

   È verissimo, sempre! Non c’è alcun dubbio su questo.

   Vedremo. Tu sai chi ha inventato la radio?

   Certo. È stato Guglielmo Marconi.

   E allora, perché a inventarla non è stata la mamma di Guglielmo Marconi?

Non ridete e sentite il seguito, che è molto serio.

Il piccolo Guglielmo Marconi non era uno studente modello. Era piuttosto scarso in lettere e in latino, e s’interessava un po’ più di scienze. Cosa avrebbe fatto una mamma normale? gli avrebbe fatto avere delle lezioni private di lettere e latino, per farlo diventare mediocre in modo uniforme.

Ma la mamma di Marconi, di origine irlandese, si rivela davvero molto brava. Gli fa avere lezioni di matematica e fisica. E il piccolo Guglielmo fa tali progressi che l’insegnante a un certo punto non può più continuare: “Questo studente ormai ne sa più di me”. Poi sappiamo tutti come è andata, a merito delle mamme e a maggior gloria dell’Italia.

Invece, a minor gloria dell’Italia, pare che quando a Benedetto Croce fu presentato Guglielmo Marconi – del quale non aveva evidentemente neppure sentito parlare – il grande umanista, dopo essersi informato, esclamasse: “Ah, un tecnico!”. E questo avvenne col mondo ormai trasformato dalla radio e con il premio Nobel già assegnato a Marconi.

 

Guglielmo Marconi
1874 - 1937

Benedetto Croce
1866 - 1952

Così fu pensata a partire dagli anni ’40 del novecento la cultura nazionale, e così fu costruito il sistema scolastico. Siamo, oggi, nel finale di partita. Siamo entrati in Europa galleggiando nel vortice dello sviluppo scientifico e tecnologico a livello planetario, ma le nostre scuole d’ogni ordine e grado non sono attrezzate alla navi­gazione perché il sistema educativo nazionale è precopernicano e anti­galileiano.

 

La casa nuova

 

Ho due anni e mezzo quando a mio padre viene assegnato un appartamento in affitto in una casa costruita dall’azienda per cui lavora e destinata ai dipendenti.

Ricordo a malapena la visita preliminare alla nuova casa, così diversa da quella in cui ero nato, ma non mi impressionano i pavimenti lucidi, l’ascensore che non avevo mai visto, l’altezza dell’edificio, il bagno e l’acqua corrente in casa.

Nossignore. Il mio ricordo più vivido consiste nella catenella a pallini che trattiene il tappo del lavandino. Tento di appro­priarmene ma non ci riesco e questo mi lascia una tale delusione che gli altri ricordi di quella visita scompaiono.

Non ricordo neppure il trasloco, che deve essere stato infernale. Forse mi avevano lasciato dai nonni.

Piano piano prendo confidenza col nuovo ambiente. Ricordo che mi piace scivolare sul pavimento lucido e mi piace anche lucidarlo, utilizzando come strofinacci i sacchetti del pane.

Una sera, decido di prendermi dei complimenti per l’ottimo lavoro di lucidatura e, mettendo in atto un piccolo trucco, mi impegno a strofinare una piastrella della cucina già di per sé più chiara delle altre. Attiro l’attenzione e mi becco la minaccia dei Barabbitt!

Secondo mio padre avevo rovinato il pavimento e a nulla vale la mia spiegazione che la piastrella appare più chiara non per opera mia, ma per la differente proporzione di granelli bianchi e neri rispetto alle altre.

Bisogna spiegare che la minaccia dei Barabbitt non è del tutto tramontata. È vero che nella casa nuova non c’è più l’incubo del carbone, ma gli impegni di lavoro fanno sorgere altri incubi.

Due sono le espressioni che bisogna tenere a mente per sapersi regolare durante la giornata: giazz e staziun, cioè ghiaccio e stazione, e Curs Com.

“Ghiaccio e stazione” significa che quel giorno mio padre ha l’incarico di vendere il ghiaccio al minuto, attraverso uno sportellino che dal suo ufficio dà in cortile, dove si accalcano i piccoli commercianti di alimentari e, contempora­nea­mente, ha l’incarico di controllare le bolle di carico e scarico dei vagoni alla (ex)stazione di Porta Vittoria.

Il fatto di dover provvedere a due incombenze situate a 700 metri di distanza lo destabilizza e lui si porta lo stress a casa. Probabilmente c’è di mezzo un equivoco, ma non ho mai capito quale.

Curs Com significa che il suo lavoro lo costringe alla filiale situata in Corso Como. E lì è veramente dura: si tratta di andare in bicicletta o con i mezzi pubblici. In tal caso, a rigore, si sarebbe dovuto cambiare tram a metà percorso e pagare quattro biglietti al giorno.

Hinn danèe! Sono soldi. L’alternativa è fare a piedi un bel pezzo di strada.

Poi si deve pranzare fuori, e, per uno abituato a rientrare a casa a mezzogiorno in punto sempli­ce­mente attraversando la strada, è un vero cruccio.

A quel tempo non c’è l’abitudine dei panini. Se si vuole togliersi la paura genetica di morire di fame, mangiare vuol dire primo, secondo e caffè, come minimo, in qualche trani.

Hinn danèe! E niente note spese per il lavoro in città.

Motivi di malumore, il suo lavoro per il dazio non gliene fa mancare, come quando i commer­cianti pretendono di ritirare qualcosa dai magaz­zini la mattina di natale e lui deve fare le bolle.

Del triciclo non si parla più, visto che non esiste un locale abbastanza ampio in cui io possa pedalare. C’è però un cavallo a dondolo di legno parcheg­giato vicino al calorifero, ma dura poco, perché il dondolio porta a lasciare sul calorifero stesso dei segni di vernice rossi e blu.

E non va bene.

Mi viene regalato un grosso camion di legno, che tutti chiamiamo carrettone. È veramente bello ed è così grande che posso salire sul cassone e girare per la casa spingendomi con le mani come in un kayak. Ma ha la targa di latta e la mamma sostiene che le rovina le calze.

E non va bene.

Pertanto, la sera stessa, via la targa con le pinze!

Mi regalano un carrettino di legno tirato da un cavallo. Stacco il cassone dal carretto e ne faccio un cassetto che inserisco in un piccolo vano, sotto il contatore del gas, che sembra fatto apposta.

Mi piace riporre lì dei piccoli oggetti. È uno spazio tutto mio.

E non va bene.

L’avranno estratto e reinchiodato sul carretto almeno dieci volte, prima di capire che a me piace così.

Più grande ci avrei custodito le monete d’argento da 500 lire, quelle con le caravelle e la bandiera che sventola nella direzione sbagliata e quelle del 7° centenario della nascita di Dante Alighieri.

La moneta d’argento da 500 lire “Caravelle”:
 a sinistra la versione corretta (circa 90 milioni di esemplari)
a destra la versione errata (circa 2000 esemplari)

 

La moneta d’argento da 500 lire “Dante”

Mi regalano una cassetta di cubetti di legno con i quali comporre, come in un mosaico, sei diffe­renti figure di animali. È un gioco di grande soddisfazione anche perché, oltre che per le figure, mi piace sovrapporre i cubetti per le mie costruzioni. Mi arrovello per capire se si possano formare più di sei disegni. In effetti, la testa del leone si adatta così bene al corpo di una scimmia da incoraggiarmi a proseguire la ricerca.

Un bel giorno non li vedo più. Un mese dopo li trovo nascosti in un mobile e tutto felice grido: “Eccoli! Eccoli!”. I miei però non ne sono contenti, anzi sento la mamma che bisbiglia con disappunto: “Li ha visti…”.

Avevo capito la loro tecnica: periodicamente e sistematicamente mi nascondono dei giocattoli, nella vana speranza che me ne dimentichi, per poi regalarli ai bambini degli operai che lavorano nell’azienda di mio padre.

Notare bene: poveri bambini di poveri operai che vivono in povere villette a due piani appena fuori Milano; mentre io ero figlio di un ricco impiegato che vive in ben due locali.

Secondo me l’operazione è sbagliata anche da un punto di vista strategico: se i genitori dispon­gono di un giocattolo di poco ingombro e di nessun fastidio in grado di tenere buono un bambino per parecchio tempo, che razza di motivo ci può essere per toglierglielo?

Ormai sono “grande”, ho quattro anni e mangio da solo, sia pure utilizzando per prudenza un piatto fondo e uno piano di alluminio.

La mamma negherà sempre il fatto che io mangiassi nei piatti di alluminio. Ma a me piace. Non mi sento sminuito, anzi: la ceramica mi sembra un materiale più vile. Come prova avrei conservato il cucchiaio di alluminio.

Ricordo che mi piace strofinare il bordo del piatto con la forchetta, ricavandone un suono stridulo, come di gesso sulla lavagna, che risulta particolarmente fastidioso a mio padre, e quindi gratificante per me.

Purtroppo il piatto fondo viene spesso riempito di un intruglio acquoso derivante dalla bollitura di verdure, con l’aggiunta di pasta o riso, che chiamano minestra. Il gusto non è per nulla appetitoso e se chiedo perché capiti così spesso di mangiare minestra, la risposta invariabilmente è: “Perché si deve!”.

Da cosa derivi questo obbligo non mi è stato mai spiegato. Arrivo a pensare che si tratti di una disposizione di legge o forse di una supersti­zione.

Ancora oggi non riesco a trovare un motivo valido. Dal punto di vista dietetico il valore della minestra è minimo: grassi quasi zero, proteine pochissime, sali minerali scarsi. Pasta e riso sono così pochi che è ridicolo metterli in conto. Ci sarebbero le vitamine della verdura, se non venissero annientate dalla cottura. E poi il sapore…

Per non parlare del bene che può dare all’organismo un alimento mangiato così di malavoglia.

Temo che l’unico pregio dell’intruglio sia il suo costo contenuto.

Eppure il gusto della minestra, così insop­portabile per i bambini, misteriosa­mente diventa una golosità a partire dai circa quarant’anni di età, anche se non sarebbe stato il mio caso.

Non frequento altri bambini, almeno fino al tempo della scuola.

Ce n’è uno che abita due piani sotto di noi, ma non mi piace. È grasso. Tutti lo prendono in giro per questo, e io faccio la mia parte.

Poi saremmo andati a scuola insieme e, per una di quelle strane pieghe che talvolta prende la vita, saremmo diventati ottimi amici.

Ma intanto tutti continuano a chiamarlo bomba – un tale lo fa addirittura sporgendosi da un tram di passaggio e lui, forse per il disagio che gliene deriva, sviluppa l’abitudine di vomitare tutti i giorni in prossimità del portone della scuola. Ma non ne risente; si riprende in pochi secondi.

La nonna mi ammonisce: “Mangia, mangia. Diventa bello grasso come il tuo amico!”.

Ma io non riesco a capire il motivo per cui dovrei tentare di assomigliare a uno che chiamano pubblicamente bomba. Forse perché ai tempi circolano ancora il motto “grassezza fa bellezza” e forse anche un po’ di invidia da parte di chi proprio non ha molto da mangiare.

Sembra che neppure il nonno seguisse i consigli della nonna, visto che, pur essendo più alto della media (di allora) il suo peso si aggirava attorno ai 50 chili.

Lui dice di avere raggiunto il suo record di magrezza durante la prigionia con i “Tedeschi” (a Buchenwald) durante la Grande Guerra.

Era stato ferito in battaglia e il proiettile era entrato nella spalla trascinandosi dietro la stoffa del cappotto, che aveva tamponato il buco.

Niente sangue e poco dolore. Ma la ferita gli sarebbe stata utile. Bastava sfregarla un po’ e il rossore gli garantiva l’esenzione dal lavoro, tanto era il rispetto dei crucchi per i feriti in battaglia.

Il nonno Agostino

 

Nei campi di prigionia non c’era cibo sufficiente per nessuno, neppure per i crucchi, e i pacchi-viveri della Croce Rossa non arrivavano. Avrei saputo da un documentario sul centenario della Grande Guerra che le consegne dei pacchi venivano boicottate dallo Stato Maggiore e dal governo italiano poiché circolava la voce che i prigionieri si fossero macchiati di tradimento, arrendendosi troppo facilmente per non combattere.

Per legge, i prigionieri accusati o semplicemente sospettati di diserzione non potevano ricevere né pacchi né posta, e contem­poraneamente le loro famiglie erano private di ogni sussidio.

Una traccia del presunto tradimento si può trovare nella Leggenda del Piave (quello che “mormorava calmo e placido”), inno nazionale dall’8 settembre 1943 al 12 ottobre 1946, nella strofa che dice: “… ma in una notte triste si parlò di tradimento”. Il riferimento al tradimento sarà eliminato durante il fascismo, perché il soldato italiano non tradisce, semmai “mancò la fortuna, non il valore”.

Comunque sia andata, il nonno torna a casa con addosso 36 chili di pelle e ossa, ricevendo in cambio del sacrificio un foglio, firmato dal Ministro della Guerra Mussolini, decorato con ben quattro medaglie.

Le medaglie del nonno


Con la mamma Teresina sulla Lambretta
modello 1947, a un anno, senza casco


La scuola

 

Sentire con triste meraviglia

com'è tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Eugenio Montale, Meriggiare pallido e assorto (Ossi di seppia)

 

La scuola elementare Cinque Giornate: l’edificio del 1927
è costruito sul sito della villa suburbana di
don Ferrante Gonzaga, il governatore spagnolo di Milano

Alla fine del quinto anno di vita, mi capita quell’evento che cambia un uomo per sempre: il primo giorno di scuola.

Non arriva di sorpresa, devo essere sincero, infatti se ne parlava da un pezzo, ma senza dare troppa importanza all’argomento.

Un bel giorno (un brutto giorno) mi buttano giù dal letto a un’ora così disumana che penso a una disgrazia. Mi spiegano che bisogna andare a scuola e che l’orario è quello. Si va a piedi, saranno trecento metri da casa.

La mamma torna a prendermi all’uscita, dopo un paio d’ore, e mi chiede come è andata.

Rispondo in modo asciutto: secondo me non era successo niente di speciale. Ci avevano radunati in cortile e le maestre avevano letto i nostri nomi, uno dopo l’altro, ci avevano ammassato in gruppi di una trentina abbondante e ci avevano portati ai piani superiori.

Nell’enorme stanzone avevano scandito ancora una volta i nostri nomi: chi c’era, quando sentiva il suo, doveva dire Presente!

Poi ci avevano assegnato un posto nelle tre lunghe file di banchi, di legno scuro, imbullonati tutti insieme e di altezza crescente man mano che si andava verso il fondo dello stanzone.

C’era, su una pedana di legno, uno strano tavolo massiccio, al quale sedeva la maestra. C’era un ancor più strano rettangolo color ardesia, incor­niciato di legno, di cui non capivo ancora l’uso.

Alle pareti c’erano dei cartelloni – più avanti li avrebbero chiamati poster – generosamente forniti dalla Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde. Questi li trovavo interessanti, perché erano figure di animali ritratti nel loro habitat, e a me piacevano gli animali. Riuscivo anche a identificarli, e potevo leggere i loro nomi. Da parecchio tempo io sapevo già leggere e scrivere, ma solo i caratteri a stampa.

Lungo i corridoi erano appese delle stampe di grande formato, con austere cornici di noce. Leggo i nomi; sono quelli famosi degli antichi romani: Romolo e Remo, Menenio Agrippa, Muzio Scevola, Attilio Regolo, Orazi e Curiazi, Cincinnato, Orazio Coclite, Coriolano… (sapete dire che cosa può avere fatto Coriolano per meritarsi una stampa?).

Nel complesso ricavo la sensazione di una gran perdita di tempo. E nessuno si premura di spiegare qualcosa. Ma oramai è andata.

Il mattino seguente, senza preavviso, stessa storia: orario disumano e più o meno la stessa solfa a scuola.

Il mondo mi casca addosso: ma come? ancora? ma non ero già stato a scuola?

Al ritorno, durante il pranzo chiedo spiegazioni.

Dice mio padre: “La scuola elementare dura cinque anni”.

E poi? – chiedo con ansia.

Poi le scuole commerciali o le medie. Sono altri tre anni. Se vuoi un diploma, le superiori durano altri cinque anni”.

E poi? – chiedo con ansia crescente.

Poi dopo il diploma fai il soldato. Diciotto mesi. Poi al lavoro, come me”.

Ma si lavora tutta la vita? chiedo angosciato.

No. A sessant’anni si va in pensione e si è liberi. Ma oramai si è vecchi. Guarda il nonno”.

A quel punto avevo capito una caratteristica fondamentale della vita: smette molto presto di essere divertente per trasformarsi in un ginepraio di impegni quasi mai desiderati che, a onta degli sforzi, invece di sbrogliarsi si aggroviglia sempre più.

Oramai avevo solo la speranza della pensione. A sessant’anni, però. A meno che…

Sapevo che c’era gente che non sprecava la vita lavorando e di questi si diceva che erano signori. Quindi i signori vivevano in un altro modo.

C’è una debole speranza. Decido che avrei fatto il possibile per liberarmi ben prima di diventare un vecchio bacucco di sessant’anni.

Ci avrei messo quarantaquattro anni di studio e di lavoro indefessi, ma finalmente sarei riuscito a riscattarmi poco prima dello scoccare dei cinquant’anni, e per giunta in un’epoca in cui a quell’età si è considerati ancora giovani.

 

Dall’inizio della scuola la mia vita si srotola tra impegni che non mi interessano molto e attività scolastiche che trovo insopporta­bil­mente lente e noiose. Ma devo resistere.

A me interessano solo le lunghe vacanze estive. Allora iniziavano ai primi giorni di giugno e il rientro a scuola era fissato rigorosamente al 1° ottobre. È un bel periodo di quattro mesi e voglio godermelo tutto.

La mia strategia è fare quel piccolo sforzo in più che mi avrebbe assicurato la promozione imme­dia­ta, senza esami di riparazione.

Non è una gran fatica: in fondo, la differenza tra un goal e un tiro fuori rete può essere di soli 10 centimetri. Sarei riuscito a fare goal per tutti i tredici anni dei miei studi.

La strategia prevede anche di non fare i cosiddetti compiti delle vacanze. Se sono vacanze, sono vacanze! Non ci devono essere ostacoli. E infatti non li avrei mai fatti, senza alcuna conseguenza. Mi aiuta il fatto che gli insegnanti non hanno alcuna intenzione di guardarli e, del resto, non avrebbero avuto modo di smascherarmi: le cose che devo sapere, le so benissimo anche dopo quattro mesi di inattività. Merito di una memoria formidabile ma anche di un metodo di studio tutto teso all’obiettivo.

Una volta sola ci sarei cascato. E avrei descritto le mie vacanze in un quaderno grande, corredato di cartoline appositamente acquistate per illustrare i testi faticosamente composti.

Al rientro dalle vacanze, tutti i quaderni vengono diligentemente impilati sulla cattedra e – orrore! – sorprendo la maestra che li butta con non­curanza nel cassone della carta straccia. Avrebbe potuto trattenerli un po’, facendo finta di leggerli, e avrebbe potuto fare il gradito gesto di restituirli. Sarebbero stati un bel ricordo. Invece si sono trasformati in una delle peggiori frustrazioni originate dalla scuola.

Per superare i periodi sgradevoli imparo a dormire sodo. Presto in piedi per gli orari disumani? e allora presto a letto, con l’intento di far passare la nottata.

È un’abitudine che conservo tuttora. Quando non ne posso più, esco dal mondo in questo modo. Quando dormo, non ci sono più lette­ralmente e nulla mi può accadere di spiacevole, almeno fino al giorno dopo. Amo dormire nel buio più nero e con la testa sotto le coperte. È il mio ideale di fuori dal mondo.

Forse per questo sarei sempre riuscito a evitare gli stress della mia professione. Compatisco sinceramente quelli che iniziano la giornata dicendo “Questa notte ho pensato…. Di notte non si pensa. Si dorme.

Il primo approccio fisico con la scuola sono i banchi. Così, ingombranti e goffi nell’aspetto, ma anche imponenti e determi­nanti per il destino dei bambini.

I posti vengono assegnati secondo l’altezza. Bambino piccolo primo banco, bambino alto ultimo banco. Sembra una semplice questione di misure, ma può cambiare la vita di qualcuno.

Succede che i ripetenti, per definizione, abbiano almeno un anno e molti centimetri di statura in più rispetto ai compagni. E finiscono nei banchi alti, in fondo all’aula. Si usa anche spedire laggiù i più irrequieti, quelli che “disturbano”, quasi al confino o alla Cajenna.

Così quegli ultimi banchi diventano una specie di ghetto per i disadattati della scuola.

Laggiù in fondo si può fare comunella con dei compagni della stessa età e dagli stessi interessi e ci si può distrarre di più. Si crede di sapere già quello che gli insegnanti stanno spiegando (e allora perché li avrebbero bocciati?) e non si sta attenti. Si creano le premesse per un nuovo insuccesso.

Inoltre nessuno chiede ai bambini degli ultimi banchi se vedono bene le scritte alla lavagna. Quanti insuccessi sono dovuti alla carenza di diottrie?

I ripetenti non conducono una bella vita. Malgrado l’atteggiamento spavaldo e oggettiva­mente più sveglio dei compagni più giovani, non hanno amici, se non tra di loro. Le famiglie stesse scoraggiano le amicizie troppo strette con i ripetenti, temendo forse una specie di contagio. Le mamme si informano con precisione sul livello del banco assegnato al proprio bambino. La prima fila, la seconda, la terza al massimo, vanno bene. Oltre, nasce un oscuro timore.

Più avanti ci avrei riflettuto con un brivido. Nato a metà dicembre, inizio la scuola a meno di sei anni e pertanto sono piuttosto piccolo. Quindi prima fila. O al massimo la seconda, quando la maestra non ne può più di vedermi dondolare i piedi per la noia, ma non osa spedirmi alla Cajenna. Se fossi nato una ventina di giorni dopo avrei perso un anno, come si diceva allora, e per l’altezza sarei finito molto più in fondo, proba­bilmente nel ghetto dei ripetenti, magari per seguirne il destino.

Credo fermamente nel destino, inteso come una sequenza di eventi concatenati in una relazione di causa–effetto. Credo che le nostre azioni non siano affatto libere, ma siano determinate da fatti, esperienze e condizionamenti che iniziano il giorno stesso della nascita. L’educazione, in fondo, altro non è che il tentativo di condizionare il comportamento dei bambini a una serie di regole sociali condivise.

Provate a chiedere a qualcuno che abbia appena acquistato un’automobile i motivi per cui ha scelto quel modello. Vi risponderà che vuole un’auto lunga perché intende caricare molte persone e bagagli, però non può spendere più di un certo importo; e l’auto deve essere blu, ma non come quelle dei ministri bensì come quell’adorabile giacchino che la moglie ha visto in una vetrina; poi l’auto deve essere alta per far salire senza troppe lamentele la suocera che ha l’artrosi; poi… poi… Alla fine dichiara di essere molto soddisfatto dell’auto che ha scelto. Niente di più sbagliato: il nostro amico ha semplice­mente elencato tutti i vincoli a lui noti (ma ce ne sono molti altri di cui non è consapevole) che lo hanno obbligato a comprare proprio quel modello. È il suo destino.

Una geniale pubblicità di qualche anno fa dice: “Se fossimo davvero liberi acquisteremmo tutti la stessa auto”.

Il destino dei ripetenti può essere interessante.

Ricordo un tale, il cui cognome tradisce l’origine partenopea e non sfigurerebbe addosso a un personaggio delle commedie di De Filippo, bocciato senza possibilità di appello perché si esprime come un famosissimo ex magistrato poi divenuto uomo politico dei nostri giorni.

È felice di andare alla refezione e al doposcuola, l’unico, in un periodo in cui questo è motivo di vergogna sociale, mentre semplicemente denota il fatto, tutt’altro che disonorevole, che anche la mamma lavora. Oggi le scuole vengono scelte anche in funzione del tempo pieno, non tanto per necessità ma per parcheggiare i figli piccoli.

Ricordo un altro, bocciato non tanto per l’igno­ran­­za, peraltro ragguardevole, quanto per l’eccessivo numero di assenze. La famiglia proviene dalla Calabria e lo tiene lontano dalla scuola a vendere i limoni per strada.

Se ne potrebbe trarre un racconto degno di De Amicis o di Dickens, ma non bisogna fermarsi alle apparenze. Il ragazzo, a forza di vendere limoni, avrebbe messo su un negozio di frutta e verdura tale da permettere una vita più che agiata a tre famiglie, in cui ognuno dei compo­nenti guadagna senza dubbio più di un preside di scuola media.

Un terzo prende pastiglie di chinino. Dicono che abbia la malaria. Ma come l’ha presa? Abita in una palude? C’è la malaria in Italia? È conta­giosa? Mistero sanitario.

Suo padre fa il sustré, cioè il commerciante di legna e carbone, e fornisce anche l’azienda in cui lavora mio padre.

Accade spesso che all’entrata il sustré si fermi sulla bilancia stando a bordo del furgone carico, e all’uscita, per fare la tara, faccia pesare il furgone vuoto dopo esserne sceso con disinvol­tura, tentando così di vendere un quintale di carbone inesistente.

La scuola è fatta anche di piccoli rituali.

Periodicamente si affaccia un bidello (guai a chiamarlo così oggi) con un curioso boccione di vetro pieno di inchiostro e dotato di un lungo becco per rabboccare il livello dei calamai.

E raggiunge il bordo superiore con tale preci­sione che basta una minima scossa al banco per provocare una catastrofica colata.

Non poteva fermarsi un millimetro prima? Forse il periodo delle carognate ai bambini non è ancora passato. È tutto un agitarsi a tamponare con la carta assorbente. Chi si bagna le mani prova a pulirle leccandole. L’inchiostro non è cattivo. Ha un sapore metallico non sgradevole.

Ogni tanto arriva un incaricato con un fascio di fogli colorati. Si tratta della pubblicazione La via migliore edita e distribuita dalla Cassa di Risparmio, quella dei cartelloni. È un momento felice. Il foglio contiene dei fumetti e parecchi articoli, alcuni divertenti, molti interessanti, tutti edificanti: lo scopo è insegnare le virtù del buon cittadino, soprattutto l’abitudine al risparmio. Va da sé che i risparmi devono essere depositati in banca, su un libretto, di cui la cassa in questione detiene praticamente il monopolio.

Più spesso di quanto si vorrebbe, arriva un incaricato che distribuisce dei francobolli sulla Lotta alla TBC in cambio di qualche spicciolo. Non capiamo molto né di TBC né del possibile uso dei francobolli, ma ci adeguiamo e sborsiamo qualche liretta, anche su sottile sollecito della maestra, che tiene minacciosamente a portata di mano registro e penna.

Stessa storia per la Società Dante Alighieri. Se oggi dovessi dire di che cosa si tratta, dovrei fare una ricerca su Internet.

Circa una volta al mese arriva la dottoressa della scuola con un boccione pieno di pillole rosse. Almeno lei spiega che sono vitamine e ci invita a prenderne una a testa, “ma non c’è obbligo” dice la maestra con registro e penna in mano. E ne prende una lei stessa per dare il buon esempio o forse per integrare la dieta alla quale la costringe la paga che le spetta.

Ne prendo anch’io. Deve essere vero che sono vitamine, perché riconosco il caratteristico sapore della B12 e il colore giallo della pipì.

La dottoressa della scuola non è amata, anzi è temuta. Il suo aspetto non è rassicurante. Se ne sta tutto il giorno nel suo antro all’angolo estremo dove si incrociano i corridoi e ha un naso a becco di civetta che incute i peggiori timori.

A lei si devono le terribili vaccinazioni anti­difteriche, quelle iniezioni che lasciano la gamba tesa e indolenzita per tre giorni. Il sospetto è che le facesse di proposito trapassando il nervo sciatico, in omaggio al già citato principio delle carognate.

Ma Beccodicivetta supera se stessa quando si devono fare le vaccinazioni al braccio, quelle che lasciano una orrenda cicatrice grande come una moneta all’altezza della spalla. E più la cicatrice è vistosa e più, dicono, la vaccinazione “ha preso”.

Beccodicivetta passa qualche minuto arroven­tando una specie di penna stilografica su una fiamma e poi la conficca nel braccio facendo penetrare la punta con un movimento rotatorio che sembra darle grande soddisfazione.

Ha poi il coraggio di chiedere “Visto che non hai sentito niente?” e il bambino di turno risponde di no, tra le lacrime. Chi ha il coraggio di contrad­dire Beccodicivetta?

In infermeria si va anche per i piccoli malanni. Un graffio o una sbucciatura trovano sollievo perché qualche benda e qualche cerotto bene o male c’è. Si abbonda con la tintura di iodio e il mercurocromo, che lasciano vistose macchie, anche sui vestiti, ma sono la prova della sollecitudine delle pubbliche istituzioni. Forse tentano di smaltire le scorte prima che mercurio e cromo siano dichiarati tossici e cancerogeni.

I disturbi di stomaco vengono curati a suon di Fernet in acqua calda. Immaginate se oggi sarebbe possibile somministrare alcolici ai bambini!

Per i malanni appena più gravi non c’è rimedio, e il bidello si incarica di accompagnare lo sfortunato bambino a casa; non è difficile, perché abitano tutti nel raggio di dieci minuti a piedi.

Nessuno abita fuori Milano. Non sospettiamo neppure che ci siano abitazioni fuori Milano. Tempo pochi anni, e Milano sarebbe diventata una bolgia, ma di persone che abitano rigoro­sa­mente fuori. È un enigma demografico.

Ricordo che molti bambini soffrono di “soffio al cuore”. Sono parecchi anni che non sento più neppure il nome di questo malanno. È forse un escamotage per evitare l’ora di ginnastica?

Almeno uno su tre, prima o poi, finisce all’ospedale per l’appendicite. Oggi non succede più. Probabilmente la diffusione dei frigoriferi ha fatto miracoli per le affezioni del tubo digerente e ha salvato più vite di tutti gli antibiotici messi insieme.

Nei primi mesi di scuola si inizia a leggere. Ben pochi lo sanno già fare e occorre un tabellone dove ciascuna lettera dell’alfabeto è scritta a fianco dell’oggetto il cui nome inizia con quella lettera.

Ricordo il metodo, totalmente irrazionale:

   “Questa è un’ape, quindi AAA… Ripetete”.

   “AAAAAAAA…”.

   “Questo è un bue, quindi Biii… Ripetete”.

   “Biiiiiiiii…”.

Finalmente, dopo una buona mezz’ora passata in questo modo:

   “Bravi. Adesso Bi + A. Chi sa come si legge?”.

Il più ardito azzarda: “BiA”.

   “No! Bi + A si legge BA, non BiA. Sei uno stupido!”.

E giù un ceffone.

Immaginate la scena quando la maestra tenta di spiegare la pronuncia corretta di CA, CIA e CHIA.

Col tempo si sarebbe pronunciata non più la “i” dopo il suono di una consonante, ma solo il suono puro. Non ho mai capito come facciano a insegnare a leggere in quelle lingue dove il suono delle lettere non è sempre lo stesso e spesso non segue alcuna regola.

Nei primi mesi insegnano, finalmente, anche a scrivere. Si passano settimane a “scolpire” righette e puntini sul quaderno prima di tentare le lettere vere e proprie. Ma stranamente è più facile che imparare a leggere, visto che si può copiare la forma giusta dal famoso tabellone.

Imparo in fretta, visto che so già scrivere in stampatello e conosco già il principio della scrittura, ma non arrivo mai ad avere una bella calligrafia. I miei compagni scrivono tutti meglio di me e tutti nello stesso modo; i loro compiti sono indistinguibili.

I miei scritti si riconoscono a colpo d’occhio. Le lettere sono sgraziate e non sempre hanno la stessa forma. La maestra (e anche gli insegnanti successivi) rileva il fatto ma non se ne lamenta troppo. Per me è incomprensibile. Se scrivo la “r” in tre modi diversi nella stessa pagina, va bene; se con la coda dell’ultima lettera tocco il margine destro, è il finimondo. Mistero pedagogico.

Bisogna scrivere in corsivo con aste e filetti. Le aste sono ingrossate, bisogna premere il pennino che per questo consuma molto inchiostro.

Devo intingere ogni due parole e la cosa mi infasti­disce. Tento di ottimizzare e scopro che se uso il pennino rovesciato ottengo una scrittura molto sottile, senza aste, ma col vantaggio di poter scrivere una pagina intera senza ricaricare.

Confidando nel fatto che già posso scrivere da cane impunemente, spero che questa mia innova­zione sia accettata senza danni.

Non è così. Le aste fanno parte della buona scrittura e non si possono eliminare.

Ma la maestra è così onesta che in un’occasione sdoppia il voto sul mio elaborato: Dettato 9. Scrittura 5.

E solo il 9 finisce sul terribile registro.

Si noti nel riquadro in alto il voto dissociato S.5  D.9
cioè: Scrittura 5 Dettato 9

(la freccia grande indica la “scrittura sottile” di mia invenzione)

Mi rendo conto che nell’occasione ho tenuto il tipico compor­tamento dei bambini: tirare la corda per vedere se e quando si spezza. Sembra incredibile che millenni di evoluzione abbiano favorito questo comportamento pericoloso: immaginate di vivere in un mondo popolato di gorilla irascibili alti tre metri che potrebbero uccidervi anche senza volerlo. Il vostro hobby consisterebbe nell’irritarli per saggiarne la pazienza?

Eppure i bambini lo fanno continuamente e le cronache nere non registrano poi tanti casi. Forse c’è un meccanismo compensativo. Nel film Il pianeta delle scimmie uno del gruppo dei naufraghi si rende conto che intorno ci sono solo scimmioni: “Comandante! Se sono tutti così, siamo perduti”. “No. Se sono tutti così, fra sei mesi siamo al governo”, è la saggia risposta.

Avrei applicato il principio venti anni dopo: avrei scelto di andare a lavorare in un’azienda dove, per lo stesso motivo, mi sarei assicurato una carriera brillante e veloce.

In quel tempo, a scuola sono inflessibili nei confronti dei mancini. Ogni utilizzo improprio della mano sinistra viene retribuito con vigorose bacchettate sulle dita della mano del diavolo. Quando racconto ai più giovani che ai miei tempi i bambini mancini venivano picchiati, mi guar­dano strano. Ma, alla fine, i mancini irriducibili erano veramente pochi.

Ora, è meglio qualche bacchettata data al tempo giusto o vedere le odierne legioni di persone che arrancano penosamente con la penna per vergare una scrittura che con tutta evidenza è stata progettata per la mano destra?

Tempo pochi anni e il problema non ci sarà più. Da anni scrivo a penna solo la firma e benedico ogni giorno la tastiera del computer, che so far viaggiare alla velocità della mente, e non mi procura quel dolore continuo alla mano per lo sforzo di essere veloce che ha funestato i miei primi quarant’anni.

Dopo qualche mese dall’inizio della scuola, sappiamo tutti leggere più o meno speditamente. La maestra organizza una “gara di lettura” che consiste nel leggere, a turno, un pezzo di un racconto scelto dal libro di lettura.

Io so già leggere da almeno tre anni e leggo anche per conto mio, non solo a scuola. Pertanto leggo la mia parte con particolare fluidità, trovando anche il modo di dare alla voce l’espressione appropriata al contenuto del racconto. Oggi si direbbe espressione sensibile al contesto.

A letture terminate, la maestra con grande enfasi mi proclama vincitore della gara. È troppo contenta e mi sorge il dubbio che consideri la mia abilità come una prova del suo buon insegna­mento. Ma io so che non è merito suo: io sapevo già leggere, anche senza di lei!

E a questo punto accade l’incredibile: dagli ultimi banchi mi viene fatta arrivare una caramella, che la maestra mi dà il permesso di mangiare subito, senza aspettare l’intervallo.

Mi rendo conto che la mia “vittoria” non aveva suscitato invidia nei miei compagni, bensì ammirazione, e qualcuno, non saprò mai chi, aveva creduto giusto premiarmi.

Imparo in quel momento che la giustizia è un generatore potente di sentimenti positivi. Avrei rivissuto esperienze simili in poche ma significa­tive circostanze nei cinquant’anni successivi.

In azienda, non erano rari i casi in cui i miei avanzamenti di carriera venissero vissuti dai colleghi non con gelosia ma come gradini della loro carriera.

Il ragionamento implicito era: “Siamo in una azienda dove si pratica la giustizia (io ne ero la prova) e pertanto, se farò bene, avrò anch’io il premio che mi spetta”.

Ho parlato di lettura e di libro di lettura. Ma cosa leggiamo?

Sono racconti di contenuto edificante, simili a quelli che si possono trovare nel Cuore di De Amicis. Ricordo alcuni esempi:

   “La mia casa è piccola ma ci si sta bene, come uccellini nel nido”. È l’apologia dei tanti figli in due locali.

   In quasi tutti i racconti la mamma si alza sempre prima degli altri e va a letto a mezzanotte, non per dormire ma per avere il “meritato riposo”. La sua attività è cucinare, lavare e soprattutto cucire, rigorosamente al lume di candela. Evidentemente rammendi e pezze sono all’ordine del giorno. Le donne sono educate a vivere in questo modo e a considerarlo giusto e per questo gratificante.

   In un altro racconto si legge: “Un uomo per un certo lavoro viene pagato con un sacchetto di mele. Tornando a casa sente sete ma si trattiene dal mangiarne una. – I miei bambini ne avranno una di meno ­– pensa. E non aveva più sete”. È il festival del lavoro nero e sottopagato; ma l’uomo non si lamenta, sopporta tutto al pensiero dei suoi figli (più di uno, evidentemente). Anni dopo avrei letto tra gli aforismi di Francis Bacon: “Mogli e figli sono ostaggi in mano al destino”. Sante parole.

   Una filastrocca dice: “Povero o ricco, principe o soldato, bisogna accontentarsi del proprio stato”. Si spiega da sé. Si noti quel bisogna che è parente stretto del si deve relativo alla minestra.

Avrei appreso in seguito che una deliberata politica delle istituzioni è non alimentare ambi­zio­ni per non suscitare tensioni sociali.

È lo stesso motivo per cui la politica in quegli anni inizia a favorire la proprietà della prima casa. “Chi possiede la casa in cui abita non vota comunista” – sentenzia Amintore Fanfani con qualche ragione, anche se i fatti in più di una occasione gli avrebbero dato torto.

Ambizioni ne ho avute – ho dovuto averne – per “liberarmi” a un’età ragionevole.

Ma, potendo scegliere, preferisco sempre evitare situazioni sgradevoli piuttosto che inseguire gratificazioni che nella maggior parte dei casi giudico irrilevanti. Dopo aver avuto o fatto una delle mille cose che fanno impazzire il mondo, mi trovo invariabilmente a pensare: “Ma è tutto qui?”. Per me il gioco raramente vale la candela. Quello che non ho, è ciò che non mi manca. Quello che non ho, non può darmi fastidio.

Ora, giunto in prossimità della sera della mia vita, nella convinzione di essere molto lontano dalla nascita ma non ancora vicino alla morte, non mi sento di condividere le parole che trovo scolpite in dialetto sulla tomba di un uomo, un po’ poeta un po’ filosofo, nel cimitero di un piccolo paese di montagna:

… eppure questa mia vita dura e amara la rifarei, con quello che contiene, le avversità e il poco che è stato sereno: qualche soddisfazione pagata cara. Reagire con forza ai colpi della sfortuna, mai invidiare nessuno né lamentarsi:
la vita è un regalo da accontentarsi…

Amo dire che “nulla voglio e nulla spero”, tranne che avere la grazia di uscire di scena penando il meno possibile e traversare l’ultimo ponte senza troppi scossoni, con la rassicurante sensazione, terminando un’av­­­ven­tura potenzialmente peri­co­losa e non voluta, di averla passata liscia.

La grande domanda

 

Per finire, riporto un testo che circola su Internet e che a me pare divertente e appropriato:

 

Se eri un bambino negli anni ’50 come hai fatto a sopravvivere ?

 

1.           Da bambini andavamo in auto che non avevano cinture di sicurezza né airbag. Sulla Lambretta di papà viaggiava tutta la famiglia, anche in quattro, e tutti senza casco.

2.           Viaggiare nella parte posteriore di un furgone aperto era una passeggiata ambita e ancora ne serbiamo il ricordo. I preti organizzavano così le gite dell’oratorio.

3.           Le nostre culle e i nostri giocattoli, quando c’erano, erano dipinti con colori vivacissimi con vernici a base di piombo. Non c’erano apparecchi trasmittenti vicino a un bambino che dorme “per sentire se respira ancora”.

4.           Tutti i giocattoli erano forniti di parti piccole e staccabili o taglienti. E noi le inghiottivamo senza conseguenze.

5.           Non c’erano chiusure di sicurezza per i bambini sulle confezioni dei medicinali, nei bagni, alle porte. Le rare prese elettriche erano tutte installate rigorosamente ad altezza di bambino piccolo.

6.           Quando andavamo in bicicletta o coi pattini non portavamo il casco né le ginocchiere.

7.           Bevevamo l'acqua dal tubo del giardino o dal benzinaio invece che dalla bottiglia dell'acqua minerale sterilizzata.

8.           Uscivamo a giocare in strada con l'unico obbligo di rientrare prima del tramonto. Non avevamo cellulari, cosicché nessuno poteva rintracciarci. Impensabile. E nessuno telefona­va alla polizia o all’obitorio se tardavamo cinque minuti.

9.           La scuola durava fino alla mezza, poi torna­vamo a casa per il pranzo con tutta la famiglia (si, anche con il papà, perché lavorava vicino a casa).

10.       Giocando, ci tagliavamo, ci rompevamo un braccio, perdevamo un dente, e nessuno faceva una denuncia o una class-action per questi incidenti. La colpa non era di nessuno, se non di noi stessi. Gli incidenti non erano occasioni per spillare una pensione a qualcuno.

11.       Mangiavamo biscotti, pane olio e sale, pane e burro; bevevamo bibite zuccherate e non avevamo mai problemi di sovrappeso, perché stavamo sempre in giro a giocare. Se qualcosa cadeva a terra, si raccoglieva e ci si soffiava sopra. Era anche più buono. E nessuno era allergico o intollerante a qualche alimento. La celiachia non esisteva. Tutti i bambini traevano vantaggio dalla pastina glutinata.

12.       Condividevamo una bibita in quattro… bevendo dalla stessa bottiglia e nessuno moriva per questo.

13.       Non avevamo Playstation, Nintendo 64, Xbox, Videogiochi, televisione via cavo con 99 canali, videoregistratori, dolby surround, cellulari personali, computer, chatroom su Internet... Avevamo invece tanti amici.

14.       Uscivamo, montavamo in bicicletta o cammi­na­vamo fino a casa dell'amico, suona­vamo il campanello o semplicemente entrava­mo, senza bussare, e se lui era lì uscivamo a giocare.

15.       Si! Lì fuori! Nel mondo! Senza un guardiano! Come abbiamo fatto? Facevamo giochi con bastoni, sassi e tappi a corona. Se c’era un pallone vero si formavano delle squadre per giocare una partita; non tutti venivano scelti per giocare e gli scartati dopo non andavano dallo psicologo per il trauma e non diventa­vano serial killer.

16.       Non esistevano “mamme chiocce”, “mamme taxi”, “mamme elicottero”, ecc. ma mamme e basta. E tutte lo erano un po’ anche di tutti noi. Le mamme non ci avevano visti prima di nascere con l'ecografia. E non conservavano il filmato dell’ecografia da far vedere a parenti e amici.

17.       A scuola ci andavamo da soli e tornavamo da soli. Quando a scuola c'era l'ora di ginnastica partivamo da casa in tuta. Se a scuola la maestra ci dava un ceffone, la mamma ne aggiungeva due. Se la maestra ci metteva una nota sul diario, a casa era il finimondo.

18.       Alcuni studenti non erano brillanti come altri e quando perdevano un anno lo ripetevano. Nessuno andava dallo psicologo, dal logo­pedista o dallo psicopedagogo; i genitori non ricorrevano al TAR o picchiavano le maestre. Nessuno soffriva di dislessia né di problemi di attenzione né d’iperattività; semplicemente prendeva qualche scapaccione ed eventual­mente ripeteva l’anno.

19.       Avevamo libertà, fallimenti, successi, responsa­bilità... e imparavamo a gestirli.

La grande domanda allora è questa:

Come abbiamo fatto a sopravvivere? e a crescere e diventare grandi?

Se appartieni a questa generazione, invia questo messaggio ai tuoi conoscenti della tua stessa generazione.

E anche a gente più giovane perché sappiano come vivevamo prima… Ma sta in guardia: non ti crederanno!