Numeri e Cifre

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Oltre alle proprie mani gli uomini
hanno usato di tutto per far di conto:
tacche, nodi, sfere di legno...

All’inizio al posto delle cifre c’erano sassi. nodi, dita di mani e piedi e. soprattutto, tacche di ogni genere. Cioè buchi, incisioni, tagli su pezzi d’osso odi legno, che già nel Paleolitico servivano probabilmente a contare capi di bestiame o beni di proprietà, conservando poi una documentazione concreta. Le prime testimonianze in questo senso sono fossili di 30 mila anni fa, coperti di buchi o segni troppo regolari per essere casuali.

A OCCHIO NON BASTA
L’uomo, infatti, non sa riconoscere le quantità a occhio: per capire quante matite contiene una confezione da 12, ad esempio, deve suddividerle mentalmente in tre gruppi oppure contarle una per una. Il nostro cervello, insomma, riconosce d’istinto fino a 4 oggetti, poi fa intervenire in suo aiuto qualche sistema meccanico.

Lo dimostra anche un antico proverbio, ormai quasi dimenticato, che diceva: "Conta le pecore e il lupo se le mangia". Il pastore, infatti, si rendeva conto che il suo gregge era stato razziato dai lupi solo quando contava le pecore e, scioccamente, accusava il conteggio di portare iella.
Forse la superstizione legata al numero 13 ha la stessa origine, perché la padrona di casa tende a invocare un conteggio pubblico degli invitati soltanto quando non riesce a farlo lei stessa: ovvero quando si supera un numero ‘facile" come 12 (che è divisibile per 1.2,3.4.6, quindi semplicissimo da suddividere in gruppi). Considerazioni analoghe valgono per l’aritmetica elementare. Per esempio si è scoperto che, prima dei 6 anni, un bambino su quattro scrive 0+0+0=3. E fino a Otto anni un bambino su due scrive O x 5 = 5.

PALLOTTOLIERE SENZA MEMORIA
I numeri servono infatti a contare, ma anche a calcolare (cioè elaborare i dati per ottenere informazioni supplementari). Eppure i popoli antichi per far di conto non usavano cifre scritte ma oggetti fisici, come abachi e pallottolieri.
Il limite di questi strumenti deriva dal fatto che i conti così eseguiti non hanno "memoria" non permettono di ripercorrere le fasi di un calcolo per localizzare un eventuale errore. Altri esempi di oggetti da calcolo sono i quipos incas, cordicelle variamente annodate, in uso in Sud America dal XII al XIX secolo. Oppure i ‘calcoli" dei Sumeri: sassolini sagomati il cui nome è usato ancor oggi per indicare operazioni contabili (un cono piccolo = 1, una sfera piccola = 10, un cono grande = 60...).

DIFFERENZA TRA NUMERI E CIFRE
Per contare, tuttavia, era utile (benché non indispensabile) avere anche una rappresentazione grafica dei numeri. Fu così che quasi tutte le civiltà inventarono simboli per rappresentarli: le cifre.
Per non accumulare troppi segni, popoli come gli Ebrei fecero ricorso ai propri alfabeti, dando alle lettere anche il valore di numeri: A=1.B=2 e così via.
Quelli che invece li inventarono dal nulla usarono segni stilizzati, iniziando quasi sempre con un puntino o con un’asta verticale: in pratica per l’1 si ricorreva a simboli che ricordassero i fori o le tacche usati nella preistoria.

SE AVESSIMO AVUTO SEI DITA...
Contemporaneamente ciascun popolo stabilì la ‘base" del suo sistema numerico cioè, in pratica. la quantità di cifre da usare: noi ne abbiamo 10, e infatti il nostro è un sistema "in base 10". Ma in passato sono stati usati sistemi in base 12. in base 20 (i Maya), in base 60 (i Sumeri).
Addirittura in base 2, come il sistema binario usato oggi dai computer e che ha due soli simboli: zero e uno, acceso e spento.

Basi piccole hanno il vantaggio della semplicità, ma generano numeri troppo lunghi: 150 in base 2 diventa 10010110. L’ideale sarebbe la base 12, perché è un numero facilmente divisibile. Ma alla fine si affermò il 10 per un banale motivo fisiologico: 10 è il numero delle nostre dita.

UN MILLENNIO DI RITARDO
Oltre che a contare e a calcolare, i numeri servono infine a misurare. La misura era, per esempio una vera e propria ossessione per i Greci, e forse è proprio per questo che non furono loro a inventare i numeri moderni.

Nel VI secolo avanti Cristo, infatti, visse in Grecia un grande matematico: Pitagora che affermava con energia «Tutto è numero». Ben presto però i suoi seguaci si trovarono di fronte a un muro invalicabile: l’impossibilità di ottenere un numero concreto dividendo due misure semplicissime come la circonferenza del cerchio e il suo diametro.
Oggi sappiamo che questo numero esiste ma è talmente strano che lo chiamiamo ‘trascendente": è il famoso Pi Greco che non si può rappresentare con un numero finito di cifre dopo la virgola. Per colpa sua cadde ogni pretesa di supremazia dei pitagorici nei confronti degli studiosi di geometria. E l’aritmetica moderna dovette attendere ancora un millennio per affermarsi.

La rivoluzione dello Zero

Solo con l’arrivo delle cifre arabe i numeri cominciarono a essere davvero utili per far di conto. Prima, conveniva il pallottoliere. Romani non lo capirono mai, ma si erano infilati in un vicolo cieco con i loro numeri. Provateci voi a ottenere LXXXVIII (88) moltiplicando VIII per XI (8 x 11): non esiste tecnica di calcolo che lo permetta. E i numeri romani erano un disastro anche per contare: le cifre grandi, per esempio, si somigliavano troppo.

L’IMPORTANZA DELLA POSIZIONE
Eppure i numeri romani sono sopravvissuti per secoli. Così come gli altrettanto scomodi numeri etruschi, cinesi, egiziani, greci. sumerici. In altre parole il sistema che usiamo oggi non è ovvio come può sembrare.

La rivoluzione iniziò in India, nel V secolo: fu allora che si scoprì la ‘notazione posizionale’, ovvero l’idea di far dipendere il valore di ogni cifra dalla sua posizione all’interno del numero. Il 6 di 67, insomma, vale più del 6 di 16. Stabilire chi fu il primo è impossibile, ma una data esatta c’è: l’anno 458, quando comparve il Lokavibhaga, un libro di cosmologia in sanscrito che faceva ampio uso dei numeri indiani, che oggi chiamiamo arabi, e dello zero.

E noi civilissimi occidentali? Ci arrangiammo con il pallottoliere fino al 1200 quando, tramite gli Arabi, si diffusero anche in Europa la notazione posizionale e lo zero. Un numero fondamentale ma impalpabile come l’aria, tanto che prese il nome da un vento, lo "zephirum".

RAZZE E SOTTORAZZE
A questo punto. la breve storia dei numeri sembra conclusa per lasciare il posto alle altre conquiste dei matematici. Invece è appena cominciata. A mano a mano che l’aritmetica progrediva, infatti, si scoprì che i numeri naturali - ovvero quelli che servono per contare sulle dita - non bastavano.
Nessun numero naturale, per esempio, dava soluzione a operazioni come 6 -10. Ma per decidersi ad introdurre i numeri relativi, quelli con il "meno" davanti, ci vollero addirittura due secoli.
E non furono subito chiamati numeri relativi: all’inizio erano definiti "numeri absurdi".

Da allora, però, i matematici si scatenarono. Prima inventarono i numeri razionali, cioè le frazioni (in tal modo le divisioni tra numeri interi avevano sempre soluzione), poi i numeri reali (altrimenti alcuni rapporti geometrici, come quello tra circonferenza e diametro, non avrebbero avuto per soluzione un numero) e infine i numeri immaginari (radici quadrate di numeri negativi). Per non parlare dei numeri ipercomplessi o di quelli p-adici. usati per dimostrare il teorema di Fermat.

QUANTO FA "INFINITO + 1"?
Molto prima di arrivare a queste raffinatezze, i matematici avevano capito che i numeri non hanno fine. Sono, in altre parole, infiniti. E inventarono un simbolo anche per questo concetto. il famoso otto coricato.

Ma non si può affermare che questo sia "il numero più grande". Per due motivi:
primo, perché niente ci vieta di chiederci «e quanto fa infinito + 1?».
secondo, perché non esiste un solo infinito: ce ne sono tanti.

Il primo a notarlo fu il tedesco Georg Cantor. che alla fine dell’Ottocento studiò le proprietà degli infiniti, scoprendo che i numeri naturali sono sì infiniti ma sono tuttavia un infinito ‘più piccolo" di quello dei numeri reali (o dei punti della retta). Cantor dimostrò poi che da ogni infinito si può ricavare un infinito più grande (lui diceva ‘di potenza superiore"), proprio come da ogni numero si può ricavare il numero successivo sommandogli 1. Tanto per dimostrare che i numeri non avevano ancora finito di sorprenderci.


I numeri sono alla base delle proporzioni
e quindi, in definitiva, del concetto di bello.
E hanno assunto col tempo valenze magiche

l loro fascino non è confinato alle università, e lo dimostra il fatto che molti artisti sono innamorati dei numeri quanto e più dei matematici. Anche il fatto di attribuire loro significati occulti suggerisce che per gli esseri umani le cifre siano ben più che uno strumento di calcolo. Forse per questo, nell’incisione intitolata "Melencolia". Durer (1471-1520) inserì un quadrato magico (una griglia di 16 cifre, nella quale la somma di ogni colonna, di ogni riga e delle due diagonali dà sempre lo stesso risultato).

LA DIVINA SEZIONE AUREA
Ma i numeri servono anche a misurare i rapporti. le proporzioni, e per questo sono stati a lungo giudicati i garanti dell’armonia artistica. A partire dal "numero aureo". Gli scrittori del Rinascimento lo chiamavano il numero della "divina proporzione". Perché? Dopotutto si tratta soltanto di un modo per dividere un segmento: dato un segmento AC.

lo si taglia in modo "aureo" se si colloca il punto B al suo interno in modo che il pezzo più piccolo diviso per il più grande dia come risultato (radice di 5-1) / 2. A questo punto si scopre però che lo stesso risultato si ottiene anche dividendo il pezzo più grande per l’intero segmento: magia!
Ecco perché l’arte lo sfrutta: lo si ritrova nel Partenone e nelle piramidi egizie, nei dipinti di Raffaello e in quelli di Cézanne.
Leonardo da Vinci stabilì addirittura che le proporzioni umane sono perfette quando l’ombelico divide l’uomo in modo aureo.

NUMERI DA APOCALISSE
E chi può negare ai numeri un certo potere? Prima dell'anno 2000 due di essi (i temibili 1 e 9) si temeva che avrebbero potuto perfino bloccare il pianeta.
La colpa però non era loro, ma dei programmatori che all’inizio dell’era informatica presero l’abitudine di inserire le date nei computer usando solo le ultime due cifre. E si è si rischiato che qualche chip con un’architettura vecchio stile potesse rifiutarsi di funzionare allo scattare dell’anno 2000.

NUMERI PRIMI E CODICI SEGRETI
I numeri hanno trovato estimatori appassionati anche in un altro settore insospettabile: quello del controspionaggio. Proprio sulle proprietà dei numeri (in particolare dei numeri primi) si basa, infatti, uno dei più sicuri codici segreti oggi esistenti, quello "a chiave pubblica".

In estrema sintesi: chi vuole ricevere un messaggio segreto prende due grandissimi numeri primi (A e B) li moltiplica tra loro e comunica al suo agente il prodotto dei due numeri (X). L’agente usa il prodotto X per codificare il messaggio ma in un modo molto complicato messo a punto nel 1977 dai matematici Ron Rivest. Adi Shamir e Leonard Adleman (dalle loro iniziali prende il nome il sistema stesso, noto come RSA).
Il bello della faccenda è che, una volta che è stato codificato, il messaggio non può più tornare leggibile nemmeno per l’agente: l’unico modo per decodificarlo è conoscere i due fattori primi. E non c’è supercomputer capace di scomporre un prodotto di numeri primi molto grandi, se non dopo mesi di tentativi.


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